venerdì 19 marzo 2004

UN PAESE E UNA DONNA: CIVITANOVA MARCHE DI SIBILLA ALERAMO


Civitanova Marche, ridente e movimentata cittadina sull’Adriatico, attivo porto e meta turistica, ha riempito diverse pagine di uno dei più importanti romanzi femministi del secolo scorso: “Una donna” di Sibilla Aleramo, pubblicato nel 1906.
Rina Faccio all’anagrafe si trasferì con la sua famiglia a Civitanova Marche nel luglio del 1886, quando aveva dodici anni. Al padre, Ambrogio Faccio, era stata affidata dal marchese Ciccolini, a ottime condizioni di lavoro, la direzione di una fabbrica di bottiglie. La famiglia venne sistemata in un’ala del palazzo Cesarini Sforza, dove fino a pochi anni prima era collocata la biblioteca comunale; il balcone dell’appartamento affacciava da un lato su corso Umberto, la via principale del paese, e dall’altro sulla piazza centrale.
È così che Sibilla Aleramo descrive il suo primo impatto con la cittadina marchigiana, che lei definisce nel libro “cittaduzza del Mezzogiorno”: “Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che cos’erano i prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e anche


le Alpi intraviste ne’ miei primi anni, e i dolci laghi e i bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria? Entrava ne’ miei polmoni avidi tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte.” Il sole, il mare, la spiaggia che, a quel tempo, non era alla stessa distanza di oggi dal centro del paese, appaiono agli occhi dell’Aleramo gli unici aspetti positivi di quella nuova piccola realtà in cui è stata catapultata. Subito dopo, infatti, dice: “ Nel paese, che si decorava del nome di città, non esistevano scuole al disopra delle elementari”, e poco dopo continua: “uscivo sull’alto balcone, guardavo giù nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia o dinanzi al caffè, qualche contadina oppressa da pesi inverosimili, qualche ragazzo sudicio che inveiva contro qualche altro in un linguaggio sonoro e incomprensibile.” L’ignoranza, la grettezza, l’inerzia, il provincialismo sono i principali tratti con cui Sibilla Aleramo caratterizza i civitanovesi, anche se il mare, con la sua luce, i suoi colori al tramonto e le vele delle paranze che vi si susseguivano, colpisce più di ogni altra cosa la sua attenzione: “In fondo alla piazza il mare luceva. Due ore avanti il tramonto si disegnavano, lontane lontane, le vele delle paranze di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si colorivano di rosso e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il tumulto delle voci dei pescatori giungeva fino a me: distinguevo il grido ritmico di quelli che traevano la barca alla riva”.

Fu tra la fine dell’ ‘800 e gli inizi del ‘900 che la costa civitanovese cominciò a popolarsi e tutto il borgo ad assumere un aspetto più coeso e ordinato, raccogliendosi prevalentemente intorno all’attuale piazza XX Settembre, fulcro del paese. A quel tempo, Civitanova Marche era soprattutto un borgo di pescatori. Ancora oggi, alcune delle loro vecchie case basse sono visibili lungo le vie del quartiere un tempo chiamato Shangai e che ora si snoda tra corso Dalmazia e corso Umberto I, delimitato da vie dai nomi marinari come Nave, Conchiglia, Ancora, Vela e così via. Purtroppo, però, le loro condizioni di vita erano ancora precarie, soprattutto a livello igienico: l’acqua potabile scarseggiava e le strade si riempivano di liquami di ogni genere, focolai dell’epidemia di tifo che colpì Civitanova nel 1899. La stessa Aleramo scrive: “migliaia di pescatori vivevano ammucchiati a pochi passi da casa mia”.
Nel 1884, quattro anni prima dell’arrivo della famiglia Faccio a Civitanova, era stata aperta la strada ferrata che collega Civitanova Marche a Macerata e a Fabriano. Anche nel libro, Sibilla Aleramo ne fa un accenno quando menziona le poche serate trascorse con la famiglia in campagna a casa del proprietario della fabbrica, che risiedeva nel capoluogo vicino, con tutta probabilità, proprio a Macerata: “Scendeva il crepuscolo e l’ora della partenza del treno si avvicinava”.
Tuttavia, è colmo di avversione e di disprezzo l’atteggiamento che Sibilla Aleramo mostra nei confronti della gente del luogo, a partire dai nuovi borghesi, come il medico incapace di ricomporre in modo adeguato il braccio della madre rotto in seguito al suo tentato suicidio, agli avvocati, “che suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra piccoli proprietari dissanguati dalle tasse”, fino alle famiglie degli operai, in cui regnava un’ipocrisia senza limiti: “Nel paese regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia tra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli tranquillamente; molte madri soprattutto subivano sevizie in silenzio. Non una moglie era sincera col marito nel rendiconto delle spese, non un uomo portava intero a casa il suo guadagno. Poche coppie mantenevano la fedeltà reciproca, e di parecchi signori s’indicava l’amante in qualche donna che viveva sola, o con un marito, su cespiti inconfessabili”.
Anche l’interesse delle donne del paese per il pettegolezzo viene dall’Aleramo severamente criticato: “ Le chiacchiere meschine e pettegole delle donne si alternavano con le discussioni rumorose degli uomini”, afferma a proposito dei rari incontri serali che avvenivano a casa di un parente del marito. Soltanto un medico toscano, quindi non originario del luogo, susciterà la sua approvazione e la sua stima, ma purtroppo morirà a causa dell’epidemia di tifo.
In ogni caso, sin dall’inizio della sua permanenza a Civitanova, Sibilla Aleramo avvertì quella distanza che la separava e l’avrebbe separata per sempre dalla popolazione locale: “Io mi esaltavo in cuore misurando la distanza fra noi e  tutti gli altri”. Da un lato, infatti, l’Aleramo e la sua famiglia erano oggetto di curiosità e di reverenziale timore da parte di quella gente, dall’altro, però, il loro comportamento, e in particolare il suo, sembrava offendere la comune morale che approvava nelle ragazze un atteggiamento molto più timido, guardingo e dimesso rispetto a quello che l’Aleramo mostrava.
La casa in cui Sibilla Aleramo andò ad abitare insieme al marito, un impiegato della fabbrica gestita dal padre, si trovava vicino alla stazione e si affacciava su corso Umberto I; dalle finestre si potevano osservare il mare e le colline che salivano verso Civitanova Alta, il vecchio incasato. Così la scrittrice la descrive nel romanzo: “Le finestre della saletta da pranzo del nostro appartamento davano su uno stradone, di là del quale si stendevano alcuni orti; al fondo si scorgeva un profilo di colline e una striscia di mare. Le altre stanze guardavano su un giardino piccolo e deserto, corso da malinconiche spalliere di bosso, e su la linea ferrata. Ogni tanto, di giorno e di notte, la casa tremava leggermente per il giungere e il partire dei treni, e nella stanza si prolungava l’eco dei fischi.”
L’infelice matrimonio con Ulderico Pierangeli, però, la vedrà reclusa in casa e
 sottomessa a un marito dittatore e maschilista, schiava di un “ambiente grossolano”, in cui il pedante rispetto di ataviche tradizioni imponeva alle donne soltanto la cura dei figli e della casa e l’osservazione di consuete pratiche religiose, cosa che l’Aleramo non avrebbe mai potuto tollerare.
Dopo ben undici anni, Sibilla Aleramo lasciò Civitanova Marche per trasferirsi con il marito e il figlio a Roma, dove incominciò a lavorare come collaboratrice di una rivista femminile. “ Il mare, la campagna, le strade del borgo, in quella fine di settembre, dovevano avere una fisionomia dolcemente stanca, esalare la migliore espressione della loro anima … Dopo undici anni dacché li avevo visti per la prima volta, li lasciavo, movendo incontro all’ignoto.”
Dopo la parentesi romana, tuttavia, Rina Faccio, suo malgrado, fece ritorno a Civitanova Marche, in quel luogo ormai da lei odiato e tra quella gente con cui sapeva di non avere niente in comune: “ Ecco, brutalmente, mi si chiudeva la via dell’avvenire, mi si riconduceva nel deserto. E con me mio figlio, che avevo voluto salvare dalle influenze dell’ambiente nativo … Laggiù, noi due, di nuovo, per anni, per tutta la vita forse, con le mani avvinte e la bocca silenziosa, di fronte a un popolo di lavoratori miserandi e pieni d’odio … ” Eppure, qualche anno più tardi, esattamente nel febbraio del 1902, abbandonando con un atto coraggioso e rivoluzionario marito e figlio, ribellandosi con forza e anticonformismo al suo tragico destino di infelicità e di sottomissione, Sibilla Aleramo, alias Rina Faccio, lasciò definitivamente il paese della sua fanciullezza e giovinezza. Ma sempre nel suo cuore e nella sua mente sarà scolpita l’immagine di quel paesaggio marchigiano che, nonostante tutto, lei amò e contemplò più volte con piacere e ammirazione, quel panorama che fece sempre da cornice alla sua vita civitanovese e che rappresentò spesso un sollievo e un
 conforto al suo inguaribile dolore. “Lontano emergeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il medio evo colle loro cinte merlate, colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti, talora cinerei; in certi giorni il silenzio imperava, strano e dolce, in certi altri sembrava che ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua affermasse la sua vita con un sussurro, e l’aria popolata di suoni diveniva come sensibile”. C’è, in questa bellissima descrizione, tutta l’essenza del paesaggio marchigiano, divenuto ormai anche a lei intimamente familiare.
Con l’animo colmo d’angoscia e di disperazione, Sibilla Aleramo andò incontro a una nuova vita, sentendo, in cuor suo, che non sarebbe mai più tornata in questi luoghi.




Di Elvira Apone


1 commento:

  1. Abito a Civitanova Marche da pochi anni e leggendo queste poche righe mi è sembrato che anche se sia passato più di un secolo da quelle percezioni avute da una ragazza di fine ottocento la percezione della realtà che mi circonda non è molto differente...............

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